E’ finita, ma probabilmente non doveva neanche cominciare.
Dopo 243 giorni la nuova avventura di Zeman nella capitale giallorossa è giunta al capolinea portandosi dietro una valanga di rimpianti e non poche contraddizioni.
23 partite condite da 10 vittorie (una a tavolino), 4 pareggi e 9 sconfitte. 31 punti sul campo con 46 gol fatti e 42 subiti. Troppo poco per un allenatore accolto come un santone, apprezzato forse più per il suo essere personaggio e per la sua figura che da sempre ha incarnato la lotta del bene contro il male, della lealtà contro la disonestà, dell’irrazionale contro il razionale. Amare Zeman perché propone un gioco di attacco vuol dire rassegnarsi a non vincere, soprattutto ora che tutti gli allenatori avversari lo conoscono e sanno bene come neutralizzarlo, o meglio, come attaccarlo. E qui arriviamo ad una delle più grandi debolezze del boemo. La partita deve essere interpretata, sulla base delle diverse situazioni di gioco, degli avversari, degli uomini a disposizione e delle innumerevoli variabili del gioco del calcio. Ma Zeman è troppo schiavo del proprio ego, non riesce a mettersi mai in discussione e dunque non cambia, non si evolve, non torna mai sui suoi passi e diventa quindi prevedibile; quando siedi in panchina da decenni e sei prevedibile e arrogante tanto da non mettere mai in discussione le tue decisioni non potrai mai vincere. E’ la legge dello sport. Il calcio moderno non lascia spazio ad estremismi ed a prese di posizione in netta contraddizione con la realtà dei fatti.
La bravura e la preparazione di un allenatore oggi, ma anche ieri, si misurano con l’elasticità con la quale
le varie situazioni di gioco e di spogliatoio vengono affrontate e soprattutto con la capacità di adattare il modulo ai giocatori a disposizione e non il contrario. Ecco perché alla rosa della Roma oggi basta semplicemente un allenatore…normale.
La rosa, un altro dei tanti punti dibattuti da settimane. Basta una semplice constatazione. La Roma, rispetto allo scorso anno, non ha venduto nessun top player e si è liberata (ad eccezione di Fabio Borini) di giocatori non all’altezza. Considerando che il mercato estivo ha portato a Trigoria tra gli altri Destro, Florenzi, Bradley, Castan, Marquinos e Balzaretti, è scontato dire che la Roma si sia rinforzata. Basti pensare che la linea difensiva targata Luis Enrique vedeva il quartetto Rosi-Heinze-Kyaer-Jose Angel e che oggi è stata rimpiazzata da Piris-Marquinos-Castan-Balzaretti. Non stiamo parlando della difesa del Barcellona o dell’Inter di Mourinho, ma di una di tutto rispetto per un campionato italiano sempre più livellato verso il basso e che non può essere la peggiore dopo quella del Pescara. Se il suddetto quartetto fosse meno vittima di attacchi in massa da parte dell’avversario a causa di una scellerata impostazione tattica e senza il supporto del filtro di un centrocampo troppo impegnato al pressing nella trequarti avversaria, sicuramente i gol e le relative sconfitte sarebbero dimezzate.
Altro problema: avere i giocatori ma non coinvolgerli. Se il centrocampo presentasse i veri titolari e non presunti talenti lo spessore e la qualità della squadra aumenterebbe di gran lunga.
Prendere Zeman è questo, non ci si può aspettare altro. Arriviamo dunque alle responsabilità della dirigenza.
Il famoso progetto tecnico era partito con presupposti pertinenti. La gestione Rosella Sensi aveva lasciato in eredità una squadra vecchia e logora per la maggior parte degli elementi. In vista delle nuove regole restrittive del fair play finanziario la scelta di scovare giovani di buone speranze da crescere e valorizzare per poi goderne i frutti nel medio-lungo termine è senza dubbio giusta (tutti i grandi club italiano sono orientati ormai in questa direzione). Anche la scelta di Luis Enrique, allenatore alle prime armi ma abituato a lavorare con i giovani e con un credo calcistico avvincente era coerente con la strada intrapresa. I bagliori di bel calcio mostrati dalla gestione del tecnico lusitano, con tutti i pregi e difetti di una squadra nuova e giovane tutta da collaudare facevano comunque pensare alla possibilità di un percorso di crescita che non si poteva esaurire dopo appena un anno. Purtroppo Luis Enrique ha ceduto ad un ambiente ostile con poca pazienza nonostante la fiducia della dirigenza che, invece di insistere su un allenatore vincente o potenzialmente tale che potesse crescere ed amalgamarsi con la squadra, si è piegata alle suggestioni della piazza prendendo un tecnico che è l’antiprogetto per antonomasia con l’epilogo che ormai tutti sappiamo. La conclusione è la seguente: Luis Enrique poteva essere il più grande bidone della storia, ma anche il nuovo allenatore vincente con cui aprire un ciclo a Roma. Su Zeman purtroppo dubbi non ce ne saranno mai….
La squadra è ora nelle mani di Andreazzoli, stratega e vice di Spalletti. In questo contesto, sicuramente più congeniale, i giocatori sono chiamati a dimostrare il loro valore per invertire questo trend negativo.
L’ambiente Roma in questo momento ha bisogno semplicemente di normalità, quella normalità che permette di schierare titolari i giocatori più forti, al posto giusto e con il modulo giusto.
Non è escluso che Andreazzoli prepari il terreno ad un clamoroso ritorno di Spalletti, condottiero dell’ultima Roma, escludendo l’ultimo scudetto, che i tifosi ricordano volentieri.
Mario Di Stasio